In Giappone sono circa un milione i ragazzi compresi tra i 13 e 27 anni che si rinchiudono. Perdono ogni desiderio di socialità e si barricano in stanza, rompendo i rapporti con tutti, a partire dai genitori. Parliamo degli hikikomori, persone che hanno scelto di “stare in disparte”, salvo qualche debole contatto attraverso il mondo virtuale della rete. Il fenomeno in Italia è meno accentuato ma comunque in ascesa. La pandemia ha scoperchiato un problema presente e molto complesso che spesso gli stessi psicologi confondono e faticano a inquadrare. L’Associazione Italiana Hikikomori si occupa da anni esclusivamente di questo. Il suo presidente, Marco Crepaldi, ci aiuta a comprendere bene le coordinate della questione: “Parliamo di un disturbo sociale, adattivo, dove il ragazzo si ritira perché soffre il giudizio, si sente non all’altezza di chiunque: genitori, amici, insegnanti. L’hikikomori pensa: ‘Se non mi vedono non mi giudicano’”.
Quello dell’hikikomori è un profilo che nel tempo ha acquisito una fisionomia ben precisa. “Questi ragazzi – continua Crepaldi - hanno una famiglia molto apprensiva, con alte aspettative sul figlio. Le persone che si ritirano sono spesso maschi, ragazzi cresciuti con una carriera già cucita addosso. I casi sono molto più numerosi nel nord Italia ma questo non significa che non ce ne siano al Sud”. Quando un ragazzo inizia a ritirarsi la famiglia non coglie che si sta aprendo un baratro. In un primo momento pensa sia timidezza o una fase dovuta alla crescita. Quando il problema investe anche la frequenza scolastica, la soglia d’allarme si alza, la tensione aumenta e gli approcci diventano due: prima si cerca un confronto pacato, un compromesso, offrendo la massima disponibilità ad affrontare qualsiasi problema. Poi si passa alle maniere più forti, i toni si esasperano e la tensione genera le prime fratture. Entrambi i tentativi portano a tristi insuccessi. Spesso i padri non accettano il problema, evitano di affrontarlo e scaricano tutto il peso sulla madre che deve allora convivere con i sensi di colpa, sentendosi in gran parte responsabile. L’eventuale presenza di altri fratelli genera un confronto tra i figli dove quelli “sani” denunciano una disparità di trattamento nelle scelte dei genitori. Le famiglie saltano in aria e anche la scuola non comprende il problema. “I problemi con la scuola non sono pochi. Se il Dirigente scolastico e il corpo docente sono professionisti comprensivi, a questi ragazzi è riconosciuto un Piano Didattico Personalizzato anche in mancanza di una diagnosi, dato che per gli hikikomori non esiste una collocazione medica. È il massimo che la scuola può fare. Si tratta, come ho già detto, di un fenomeno sociale ancora non ufficialmente riconosciuto a livello internazionale, malgrado i molteplici studi. Spesso vengono fatte diagnosi affini come ansia sociale, ansia scolare o depressione. Si ignora un problema gravissimo o spesso lo si affronta con strumenti e persone inadeguate”. Le conseguenze di un tale problema sono sociali e riguardano tutti. Parliamo di migliaia di persone che spesso arrivano a una vera e propria inattività e necessitano di assistenza sanitaria che negli anni aumenterà e ricadrà sulle casse dello Stato. “In Giappone gli hikikomori sono inseriti nella categoria dei nuovi poveri – continua Crepaldi – quindi percepiscono una pensione di invalidità e anche in Italia si va verso questa direzione. È un fenomeno inarrestabile che dipende da dinamiche macro sociali; possiamo contrastarlo solo cercando di formare professionisti, educatori, insegnanti e fare sensibilizzazione. La nostra associazione rimane praticamente l’unica a livello nazionale che si occupa di questo tema. La percezione sta aumentando ma c’è tanta confusione. In molti pensano che hikikomori sia dipendenza da internet. Questo è un falso mito che abbiamo contribuito a dissolvere in questi anni. Non è così. La dipendenza da internet può essere una concausa o una conseguenza. Difficilmente è la causa del problema visto che quasi sempre l’hikikomori si sfoga con il mondo online, cercando di bilanciare quello che perde con l’isolamento. L’isolamento però è determinato da altri fattori: la difficoltà di inserirsi nel contesto sociale e reggere il giudizio altrui”. All’associazione che Crepaldi presiede giungono quotidianamente lettere di famiglie disperate che hanno cercato aiuto in lungo e in largo senza risolvere il problema. Anche se i medici prendono in carico questi ragazzi, resta la necessità di figure formate specificamente sulla problematica. “I casi di hikikomori sono diversi uno dall’altro: ci sono forme più lievi e forme che spesso sono cronicizzate o hanno sviluppato disturbi psichiatrici. Bisogna fare un’attenta analisi del caso, ovviamente partendo dai racconti dei genitori perché il ragazzo non permette a nessuno (almeno in una prima fase) di avvicinarsi. L’intervento è multidisciplinare: uno psichiatra deve escludere che l’isolamento derivi da altri fattori come la schizofrenia o altre psicosi e deve poi esprimersi sulla necessità di un trattamento farmacologico, nel caso in cui i sintomi siano diventati acuti. Fondamentale è la presenza di un educatore a domicilio che spesso riesce a costruire una relazione amicale con il ragazzo. Sicuramente serve la collaborazione della famiglia, disponibile a mettersi in gioco e capace di fare un percorso che sia prima di tutto di estrema pazienza e attesa”. Attesa di che cosa? “Della libertà del figlio di iniziare a recuperare la fiducia che ha perso nei confronti degli adulti, perché si tratta di un problema anche di adulti”. In che senso? “Il padre spesso non è una figura affettiva. C’è l’ansia della madre. C’è una crisi degli insegnanti che spesso i ragazzi definiscono bulli. Gli hikikomori sono delusi dagli adulti di riferimento, dalla società in generale, una delusione che diventa allontanamento da una realtà che non corrisponde”.
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