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La scuola è un’attività “economica” e alti livelli d’istruzione garantiscono percentuali maggiori di Pil. Ma l’Italia ha pochi laureati e sbagliati. Secondo Luisa Ribolzi bisognerebbe partire da questa consapevolezza per sapere come investire i soldi del Recovery Fund.
Nelle settimane in cui la stampa e gli opinion leader si sono occupati di scuola non solo per dire che è centrale nella società della conoscenza, ma addirittura che questa centralità si dovrebbe tradurre in una serie di misure, Luisa Ribolzi su ilsussidiario.net commenta due due affermazioni sul tema.
La prima
"Scrive Ferruccio de Bortoli (“Un’apatia colpevole sul sapere”, Corriere della Sera del 6 dicembre): “se la scuola fosse un’attività economica, avesse un suo fatturato, l’avremmo trattata certamente meglio. … Se le ore perdute di lezione si traducessero in una posta di bilancio aziendale, avessero la stessa importanza di un credito bancario in sofferenza o di una commessa perduta, l’allarme sociale suonerebbe forte”.
La seconda
"David Goodhart, un giornalista e opinionista inglese che ha scritto tre anni fa The road to somewhere, liberamente traducibile “come andare da qualche parte”: “Venti o trent’anni fa espandere l’educazione superiore, creare più posti di lavoro cognitivi aveva senso, ma negli ultimi dieci anni non è stato questo il caso, abbiamo raggiunto il picco della ‘testa’ e un riequilibrio stava cominciando già prima della pandemia. Viene fuori che l’economia della conoscenza non ha bisogno di così tanti lavoratori della conoscenza: questa è la nuda verità. L’intelligenza artificiale renderà superflui molti lavori cognitivi di medio e basso livello: la classe cognitiva si sta già lentamente restringendo, la sua espansione si è fermata. C’è già una riduzione del premio salariale per i laureati: era del 50% in più rispetto ai non laureati, ora per gli uomini che non vengono da università di élite è meno del 10%. E il 30% dei laureati ormai fanno lavori che non richiederebbero una laurea”
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